C’è a Roma una certa razza di affaristi, che corre qua e là, impegnata a non far niente, che si affanna senza averne guadagno, che fa molte cose senza realizzarne nessuna, penosa per sé e molesta per gli altri. Se potessi, vorrei correggere questa genìa raccontando questa favola, che poi è una storia vera. Mentre era in viaggio verso Napoli, Cesare Tiberio si fermò nella sua villa a Capo Miseno, progettata da Lucullo in cima all’omonimo promontorio, da cui la vista spazia fino al mar Tirreno e, più lontano, fino al mar di Sicilia. Tra i servitori vestiti in modo piuttosto succinto, ce n’era uno che indossava una tunica di lino pelusiaco ornata di frange, che gli scendeva morbida giù dalle spalle. Mentre Tiberio passeggiava nello splendido parco, quello prese un secchiello di legno e si mise a bagnare il terreno polveroso, mostrando verso il suo signore una cortese premura. Ma faceva proprio ridere. Poi, correndo per delle scorciatoie, precedeva l’imperatore in un altro viale e anche lì annaffiava per tenere bassa la polvere. Cesare riconobbe il tipo e ne capì l’intenzione. E poichè gli sembrò che tanto darsi da fare mirasse a guadagnarsi chissà quale privilegio, “Ehi, tu!” lo chiamò. Quello scattò subito – e figuriamoci, c’era da aspettarselo! – tutto eccitato dall’aspettativa di stare per ricevere un premio. Ma l’imperatore gli disse così: ” Non hai fatto molto ed hai sprecato il tuo lavoro; con me, ottenere la libertà ha un prezzo molto più alto.

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